sabato 3 dicembre 2011

Dell'abbordaggio del galeone Lucius Brutus da parte dei Nailliani.


Inviato il messaggio, tutto l'equipaggio si mise in posizione, non di difesa, come si potrebbe credere, ma d'attacco: sapevano infatti che la nave mai avrebbe potuto reggere l'urto della capitana Nailliana e il piano era dunque di prendere possesso di quest'ultima per poi poter far rotta al più vicino pianeta abitato dove sarebbero stati messi in salvo. Tanta era la disperazione tra i nostri che non pochi credettero che il piano avesse delle possibilità di riuscita; chi invece aveva esperienza di cose guerresche capì che non era che, benché temeraria e con lievi possibilità di riuscita, un azione suicida. Tra l'equipaggio si diceva infatti che il comandante, per paura di essere processato per la perdita della nave e delle merci, aveva intenzione di cercare una morte onorevole, e portare con sé quante più persone egli avesse possibilità.
La nave capitana dei Nailliani, con la prua rivolta verso il nostro lato sinistro, frantumò con il rostro la parte anteriore del galeone staccandolo completamente dal resto della nave, causando molte perdite tra i nostri, fortunatamente però i settori vennero chiusi in tempo prima di causare altre perdite e la nave,anche se a stento, era ancora in grado di navigare. Molti allora, persa ogni fiducia sulle possibilità di difendersi, si recarono dal capitano e gli chiesero d'arrendersi, ad evitare che morissero tutti nello spazio. Questi però li invitò a ricordarsi che erano cittadini della Repubblica e cioè gente che, in simili situazioni, non aveva mai perduto l'onore per paura della morte. Rientrato questo ammutinamento, benché tutti fossero tornati al loro posto, la loro caparbia costanza non bastò a tenere la nave in sicurezza, che aveva lo scafo esterno sempre più squarciato. Si iniziò a mormorare che il galeone era sul punto di collassare. Passatasi parola l'un l'altro, tornarono inferociti dal comandante e lo scongiurarono di arrendersi: la situazione era critica e, se lui aveva intenzione di perdere la vita, badasse di non perdere anche l'onore facendo morire tutta quella gente. A queste e ad altre parole il Comandante Cornelius Vandervala rispose seccamente: “Lasciate fare a me il mio compito di capitano” e intimò a questi di allontanarsi dalla sala di comando. Mentre questi ancora si lamentava e si rifiutavano di andarsene, giunse dal comandante l'ufficiale alle macchine, Pelagius Pursius, e gli si avvicinò parlandogli all'orecchio; e dato che veniva da un sopralluogo dalla sala motori e non parlava pubblicamente, tutti ne dedussero che lo stava avvertendo dell'imminenza del pericolo...
A questi discorsi, che si svolgevano tra i due, tutti gli altri stavano così attenti che, accortisi di quel che succedeva, ad una voce con grande veemenza gridarono: “Se voi volete morire, noi vogliamo salvare la vita, perché combattere non serve ormai a niente e non c'è più modo di difenderci” E senza tener conto degli ordini del comandante, lo deposero dal suo potere, senza però imprigionarlo, ma anzi era libero di muoversi per il galeone. L'ammutinamento si estese a tutta la nave e per quanto Vandervala facesse e gridasse, un ufficiale inviò un messaggio di resa.

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