giovedì 1 dicembre 2011

Della fuga e della seconda battaglia con i Nailliani.

Partito il galeone, come ho detto, e avviatosi verso lo spazio aperto in direzione di Nadiria, non navigò da solo per molte ore, perché il nemico riuscì a rintracciarlo facilmente e, con le sue tre navi in breve tempo lo raggiunse. Le due che avevano combattuto il giorno prima tallonavano i nostri, mentre la terza, sempre pacifica, seguiva la loro scia. Questa nave, anche se non fosse vero che faceva parte di un altra squadra e che non aveva ricevuto l'ordine di combattere, non avrebbe potuto entrare in battaglia perché non sapeva come disporsi: le sue compagne, infatti, avevano cominciato a colpire con le loro batterie anteriori, per poi, una volta arrivati abbastanza vicini alla Lucius Brutus, fare a turno a scaricare le artiglierie laterali, così mentre una sparava, l'altra ricaricava; la nostra nave era incalzata in tale modo che non ci fu un solo momento durante il quale non gli piovessero addosso proiettili. Dai nostri i Nailliani, invece, ricevettero poco danno, infatti la tattica del comandante di usare le mine non li colse di sorpresa e riuscirono a liberarsene distruggendole molto prima che queste riuscissero ad avvicinarsi ai loro scafi. Inoltre i due cannoni di poppa erano guasti dalla battaglia precedente e, non potendo usare colpi diretti ma solo proiettili esplosivi lanciati dai cannoni laterali, e quindi poco affidabili, i Nailliani non ebbero grandi difficoltà a raggiungerci.
Dopo circa quattro ore di combattimento così intenso, sul galeone, ridotto quasi a un colabrodo, si contavano alcuni morti e parecchi feriti. Inoltre l'intero comparto di cannoneggiamento sinistro era inutilizzabile, in quanto uno squarcio largo quanto una lancia aveva reso il settore aperto al vuoto e quindi inagibile per i cannonieri, quasi tutti privi di tute pressurizzate e scorte d'ossigeno. Anche l'hangar di lancio aveva subito gravi danni; fu dunque deciso, che le residue energie dell'equipaggio venissero usate per la riparazione di questo, necessario come ultima via di fuga in caso di distruzione del galeone.
La situazione era così disperata che si decise di mandare alcuni ingegneri fuori dalla nave affinché riparassero lo scafo esterno; esponendoli così a rischi enormi, sia per la possibilità che i nemici li vedessero e iniziassero a bersagliarli, sia per il gran numero di detriti volanti che rischiavano di recidere i cavi di sicurezza e condannandoli così alla peggiore delle morti. Ma non bastò il coraggio di questi ultimi: pur avendo chiuso molte falle, e ristabilito l'abitabilità in molti comparti, ne rimanevano molti altri ancora da riparare, alcuni dei quali, necessari per la navigazione, era praticamente impossibile aggiustarli in quelle condizioni.
L'annuncio che non era possibile riparare la nave sgomentò tutti perché ci si rendeva conto che la mala sorte creava ostacoli e difficoltà insormontabili per le loro forze: tanto più che il galeone non obbediva più alla guida. Come ultimo slancio d'umanità si lanciarono nello spazio i morti e vennero curati per quanto possibile i feriti..
Il comandante, come noi tutti, si rese conto che l'unica nostra salvezza stava in un abbordaggio e in un combattimento corpo a corpo: per questo diede ordine a tutto l'equipaggio di armarsi e inviò al nemico un messaggio dove affermava che non avrebbero mai ceduto la nave e che quindi, se veramente volevano il bottino, i Nailliani sarebbero dovuti venire all'arrembaggio.

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